Sinner, ci è voluto un po’ per carburare, ma alla fine ha fatto la differenza.
C’è stato un momento in cui sembrava che Jannik Sinner si fosse come impantanato. Giocava bene, a tratti addirittura benissimo, eppure gli mancava sempre qualcosina per poter competere con i più grandi del circuito. Non reggeva il gioco di Novak Djokovic e nemmeno quello di Daniil Medvedev, tanto è vero che ha dovuto sudare molto più di sette camicie prima di riuscire, finalmente, a batterli.
Va da sé, naturalmente, che quella parentesi sia finalmente alle spalle e che l’attuale numero 1 del mondo, nel tempo, sia riuscito a rendere il suo gioco ancor più sofisticato e pericoloso. Non sarebbe in vetta al ranking Atp, del resto, se così fosse. E non sarebbe neanche la bestia nera di molti altri giocatori che, come lui in passato con Nole e con il russo, proprio non riescono a tenergli testa, figurarsi a batterlo.
Certo è che il percorso per arrivare fin qui è stato in salita e non in discesa. Jannik ha dovuto lavorare tanto e duramente, perché solo così, si sa, si possono ottenere buoni risultati. Ma c’è altro, al di là del suo lodevole stacanovismo, dietro la storia del suo incredibile successo, che sappiamo essere stato travolgente e più rapido, probabilmente, di quanto pensassimo quando, guardandolo, credevamo che fosse acerbo e non ancora maturo per competere a certi livelli.
In questa sua incredibile scalata, è innegabile che Sinner abbia potuto fare affidamento su una persona che, più di tutte, ha creduto in lui e nel suo talento. Parliamo di Simone Vagnozzi, il coach che subentrò a Riccardo Piatti e che si temeva, inutile negarlo, non fosse all’altezza di forgiare un gioiello come Jannik.
“Sono cresciuto tantissimo quest’anno – ha detto l’azzurro ad Esquire Australia – sia fisicamente che mentalmente. I risultati che vedete ora non sono improvvisi. Sono frutto del duro lavoro che abbiamo svolto negli ultimi due anni. Sono figlio di uno chef e so che non si inizia a cucinare un buon piatto in pochi minuti. Si studia, si capisce, si prova e si riprova, poi il piatto finale sarà buono. Ho imparato la tattica. È importante perché può permetterti di aggiustare una partita che non sta andando bene”.
“Quando Simone Vagnozzi è arrivato nel mio team mi ha dato 7/8 informazioni a partita – ha raccontato ancora, sbalordendo tutti – sinceramente non ci capivo niente. Quando mi disse di fare uno slice non sapevo come farlo, quindi abbiamo fatto tanti cambiamenti. Simone è bravo perché parliamo molto e non mi impone regole”. E dire che, nonostante questo inizio così poco promettente, le cose siano andate addirittura meglio di ogni più rosea previsione.
Questo contenuto è stato modificato 4 Dicembre 2024 12:35
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