Sinner ha ben pensato di togliersi elegantemente qualche sassolino dalla scarpa: la confessione inaspettata.
I detrattori erano praticamente certi che quel giorno non sarebbe mai arrivato. Erano sicuri che Jannik Sinner fosse destinato a restare tra i “mediocri” e che non avesse la tempra necessaria per vincere un torneo importante come quello che si è aggiudicato, invece, qualche settimana fa.
Il suo trionfo a Toronto è stato, quindi, doppiamente importante. Da un lato perché era tempo che anche lui mettesse in tasca i benefici e il prestigio derivanti da un titolo Masters 1000; dall’altro perché, appunto, ha dato un gran bello schiaffo morale a chi non credeva in lui. A chi pensava che meritasse di rimanere nel limbo, dopo aver dato il benservito ad un coach di grande esperienza come Riccardo Piatti per approdare alla corte di un allenatore meno conosciuto come Simone Vagnozzi. Ci è voluto del coraggio, per emanciparsi da chi lo aveva formato, ma l’altoatesino ci aveva visto giusto. Sarebbe cresciuto anche con Piatti, ovviamente, solo che in un’altra maniera. Una maniera che, evidentemente, non tanto gli garbava.
Si è a lungo discusso delle cause scatenanti di quel divorzio inaspettato ed è parso di capire che il problema fossero proprio i metodi. “Io ho la mia filosofia – aveva detto l’ex allenatore di Sinner subito dopo l’addio, lasciando sottintendere che tra i due ci fossero state delle divergenze di opinione a proposito del modus operandi adottato nella sua Accademia – i miei metodi. Se uno vuole restare qui, deve sottostare ai miei metodi. A 20 anni ci sta che si voglia andare a cercare nuove strade, fa parte della vita. Certo, faceva parte della famiglia, ma non è obbligatorio rimanere per la propria famiglia. I figli a volte decidono di andare a studiare all’estero, e quindi se ne vanno. Ma se restano, devono seguire i miei metodi”.
Sinner, che bordata: il passato è ormai passato, ma…
E Jannik, appunto, aveva deciso di andar via. Una scelta coraggiosa, la sua, che era stato a lungo osteggiato e criticato per essersi affidato ad un coach forse meno esperto – che non significa meno competente, naturalmente – di quello sotto cui l’occhio vigile era cresciuto tennisticamente e umanamente.
In Vagnozzi, e poi anche in Cahill, ha invece evidentemente trovato ciò che a lungo aveva cercato a Bordighera. Lo ha detto a chiare lettere nell’intervista rilasciato prima dello Us Open a Repubblica, nella quale ci è parso di rintracciare qualche bordata al suo vecchio team. “Ascolto i consigli tecnici e provo a realizzarli subito. Forse questo mi ha portato dove sono ora. Certo, anche nell’altro senso ora le cose un pochettino sono cambiate – questa la stoccata di Sinner – C’è più confronto e, quando non capisco una cosa, ho voce in capitolo. C’è un confronto per trovare una soluzione giusta. Ora siamo tutti sulla stessa linea, cioè siamo una squadra: il fisioterapista, il preparatore, poi i due tecnici Darren Cahill e Simone Vagnozzi. Quando c’è un dubbio su cui discutere si parla tutti insieme, e insieme si mettono tutte le cose: quella è la nostra forza, il segreto del team“.
Che abbia voluto ribadire, Jannik, quanto poco gli piacessero quei famosi metodi ai quali era costretto a “sottostare”? Probabile. Ma il passato è ormai alle spalle e ciò che conta è il presente. Un presente che non potrebbe essere più luminoso di così.