Berrettini vola agli ottavi di finale e incontra Alcaraz. Guai a darlo per spacciato: Matteo ha qualcosa che Carlos potrebbe non avere.
Se per vincere bastassero solo i muscoli, Matteo Berrettini sarebbe sul tetto del mondo. Il suo bicipite spaziale riuscirebbe, anche da solo, a fare tutto il lavoro sporco. Ma, ahinoi, per quanto importanti e certamente funzionali alla potenza dei colpi, non sono sufficienti. Soprattutto in certe partite.
Non lo saranno, ahinoi, nel big match di oggi, quello che lo vedrà impegnato sul Centrale dell’All England Club contro colui il quale sa bene come si sta a certe altitudini. Dopo aver sconfitto, nell’ordine, Lorenzo Sonego, Alex de Minaur e Sascha Zverev, il tennista romano dovrà sostenere un “esame” molto più ostico. Ad attenderlo c’è nientepopodimeno che Carlos Alcaraz, il numero 1 al mondo che nel recente torneo del Queen’s ha raccolto, guarda caso, l’eredità di Berrettini. Segno che anche sull’erba è migliorato tantissimo e che il suo gioco si adatta ormai alla perfezione a qualunque tipo di superficie.
Ma farebbe bene, il campione iberico, a non dormire sonni troppo tranquilli. Berrettini – che sul velluto verde è così forte da essere stato ribattezzato Erbettini – è pur sempre il martello che due anni fa si è spinto in finale su quegli stessi campi. Il rullo compressore che solo Novak Djokovic è riuscito a fermare. E il pupillo di Juan Carlos Ferrero sarà pure il talento più formidabile della Next Generation, ma contro un Berrettini così c’è poco da stare allegri.
Berrettini, cuore e testa per batterlo di nuovo
Tanto più se, come certamente farà, guarderà al passato. Alcaraz indossava ancora le canotte in stile Nadal, quando l’ex numero 1 d’Italia lo batté all’Australian Open al termine di una maratona infinita protrattasi per cinque set. Gli sarà rimasto senz’altro impresso, il fuoco che Berrettini aveva negli occhi.
Matteo conosce già, quindi, la ricetta vincente per mandare in crisi Alcaraz. E poco importa che Carlos non fosse ancora, a quel tempo, il più forte al mondo. Perché a fare la differenza furono gli “ingredienti” che il romano aggiunse al suo “impasto”. A fine gara indicò la testa e il cuore, quelli che, al di là del bicipite d’acciaio, fecero la differenza in quella situazione così complicata.
“Ho detto a me stesso – dichiarò all’epoca – che avrebbe vinto il match chi lo voleva di più, quindi immagino che lo volessi di più io. Ho ripetuto a me stesso di essere pronto a tutto: alla fine si tratta di non arrendersi, lottare e provare a fare la cosa giusta. Penso che questo abbia fatto la differenza tra di noi. Dal mio angolo mi facevano segno di avere un cuore enorme, non importa quanto stai soffrendo né quanto sei stanco…”. Speriamo allora che chef Berrettini se la ricordi bene, quella ricetta. Che sappia replicarla su quel campo che gli ha cambiato la vita e sul quale ha dimostrato, ancora una volta, di essere un campione con la “C” maiuscola. In barba a quanti, nelle ultime settimane, lo hanno sbeffeggiato e dato per spacciato.