Il 19 febbraio scorso l’Atalanta ha giocato contro il Valencia allo stadio “Giuseppe Meazza” a San Siro, a Milano. Era l’andata degli ottavi di finale di Champions League, vinta dall’Atalanta per 4-1 tra celebrazioni comprensibilmente clamorose. Si trattava infatti dell’esordio assoluto della squadra bergamasca nella fase a eliminazione diretta di questa competizione.
Come consueto l’Atalanta giocava a San Siro perché il Gewiss Stadium di Bergamo non rispetta ancora le normative internazionali imposte dalla UEFA. Due giorni dopo le prime pagine dei quotidiani nazionali riferivano dei primi contagi da coronavirus avvenuti in Italia, in Lombardia e in Veneto.
Oggi, a un mese esatto da quella partita e in uno scenario internazionale stravolto dalla pandemia da SARS-CoV-2, alcuni addetti e commentatori si chiedono se Atalanta-Valencia del 19 febbraio sia da considerare un evento rilevante nel rapido e drammatico incremento di contagi a Bergamo e in Lombardia, oltre che tra alcuni calciatori e membri dello staff del Valencia.
L’ipotesi della “partita zero”
Intervistato dal Corriere dello Sport, l’immunologo del policlinico Umberto I di Roma Francesco Le Foche non ha escluso che Atalanta-Valencia del 19 febbraio sia stato uno tra i potenziali “fattori trigger” che hanno attivato in modo repentino la diffusione del coronavirus. “L’aggregazione di migliaia di persone, due centimetri l’una dall’altra, ancor più associate nelle comprensibili manifestazioni di euforia, urla, abbracci, possono aver favorito la replicazione virale”, spiega Le Foche.
– Che intende per “favorito”?
– Intendo un’espulsione di quantità di particelle virali molto alta e a grande velocità dalle prime vie aree, bocca e naso. Stiamo parlando dell’enfasi collettiva di una partita storica, con molti gol. L’afflato di una tifoseria appassionata come poche. Devo immaginare che a quella partita siano andati quasi tutti, inclusi probabilmente asintomatici e febbricitanti.
Secondo Le Foche si tratta in ogni caso di un ragionamento fatto a posteriori. Al momento in cui si è giocata Atalanta-Valencia, ricorda, erano ancora troppo pochi gli elementi noti sul coronavirus e sulla sua “enorme diffusibilità”.
Il comunicato del Valencia
La positività del difensore del Valencia Ezequiel Garay, primo caso noto di coronavirus nella Liga spagnola, è emersa nella giornata di domenica 15 marzo. Il giorno dopo, il Valencia ha annunciato la presenza di altri contagi da Covid-19 tra calciatori e membri dello staff, e che tutti i casi sono asintomatici e in isolamento domiciliare.
Nel comunicato il Valencia ha esplicitamente indicato nella partita Atalanta-Valencia giocata a San Siro il 19 febbraio scorso un fattore di contagio.
“Nonostante le rigide misure adottate dal club dopo la partita di Champions League contro l’Atalanta del 19 febbraio a Milano – un’area definita ad alto rischio pochi giorni dopo dalle autorità italiane –, tra le quali mantenere una distanza di sicurezza tra i giocatori/impiegati del club e il pubblico, gli ultimi risultati evidenziano che quell’esposizione ha determinato una percentuale di positività al coronavirus del 35% tra i membri della prima squadra”.
In una successiva intervista al Corriere dello Sport il dottore Matteo Bassetti, direttore del reparto Malattie Infettive dell’Ospedale S. Martino di Genova, ha recentemente espresso qualche perplessità in merito alla possibilità che giocatori del Valencia risultati positivi alla Covid-19 in questi giorni si siano infettati a Milano il 19 febbraio scorso. Molto più probabile, sostiene Bassetti, che i contagi siano avvenuti direttamente a Valencia in un secondo momento.
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